C’è un libro a cui ero molto affezionato, da piccolo. Ne possedevo una versione semplificata – non ricordo la casa editrice -, con le illustrazioni e alcuni tagli al testo originale. Si intitolava Dagli Appennini alle Ande e raccontava la storia del piccolo Marco che partiva alla volta del Sud America alla ricerca della madre perduta. Ero un bambino attratto dal melodramma e ricordo distintamente che amavo identificarmi con il protagonista del libro, nonostante la mia storia familiare non avesse alcuna tragedia da annoverare.
Questa è una delle possibili spiegazioni per cui ho vissuto i giorni a Buenos Aires in uno stato costante di sorpresa e commozione. Questa città, il cui fermento elettrico sembra non sostare mai, è abitata da persone che sanno come amare – è una loro competenza specifica. Non riesco a descriverlo in altro modo, questo sentimento che mi ha accompagnato. C’è una specie di intesa comune verso la felicità, e da estraneo diventa inevitabile provare a intonarsi.
A Buenos Aires, oltre al workshop Diarios con 5 danzatrici locali che ha dato vita a una presentazione aperta al pubblico, ho deciso con Elisabetta Riva di portare il mio lavoro Avalanche. Credo che fosse la decisione migliore visto che si tratta del primo progetto che presento al pubblico argentino: riassume molte cose che mi rappresentano. C’è un lavoro sul corpo legato alla memoria, un rapporto molto forte con la voce e il testo che ho poi sviluppato in tutti i miei spettacoli successivi, e bascula tra due registri, l’uno più popolare (legato a una certa cultura pop) e l’altro più universale, legato all’umano in senso più ampio. E poi perché è interpretato con me da Teresa Silva, formidabile danzatrice portoghese.
Per le opere “viventi” è fondamentale conoscere contesti esterni all’Europa: incontrare pubblici e comunità diversi e distanti, che invitano a correggere continuamente la propria postura e che chiedono al lavoro di farsi permeabile, di adattarsi, in un continuo esercizio empatico.
Il pubblico argentino ci ha stupiti per l’attenzione estrema, la curiosità, l’intesa direi sentimentale prima ancora che intellettuale. Anche se non esiste mai “un pubblico”: ovunque presentiamo il nostro lavoro, anche in quei contesti dove ci sembra di poter conoscere qualcosa del contesto culturale, ci rivolgiamo sempre a delle individualità, a delle storie e a delle sensibilità specifiche, nei confronti delle quali le nostre capacità di capire cosa stia accadendo sono molto limitate. Questo mistero rende sempre l’incontro con il pubblico un enigma, un appuntamento romantico.